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il business ha un cuore

Pensare fuori dai soliti schemi ci porterà ad un nuovo mondo del lavoro?

Cuore Business di Riccarda Zezza

Nel film Il diavolo veste Prada, Emily, segretaria dell’eccentrica e perfida direttrice del magazine di moda più famoso al mondo, è seduta alla sua scrivania: l’orario di lavoro è finito da un pezzo, si deve preparare per la serata organizzata dalla rivista, è fortemente raffreddata, soffre i morsi della fame per entrare in un meraviglioso quanto striminzito vestito e dovrà passare la serata al fianco della sua capa per suggerirle i nomi dei partecipanti alla festa.

Noi spettatori sappiamo tutto questo e ascoltiamo Emily ripetersi "amo il mio lavoro, amo il mio lavoro".


A chi non è capitato, avendo la fortuna di fare un lavoro che ama, di trovarsi in difficoltà e doversi ripetere questa frase?!

Questa scena del film, in particolare, suggerisce una serie di miti legati al lavoro con i quali anche io sono cresciuta: il lavoro è sacrificio, il lavoro è un dovere, il lavoro viene prima di tutto, a lavoro non ci si può lamentare, a lavoro non si parla della propria vita privata, e se trovi un lavoro che ami devi essere disponibile a fare tutto e di tutto.

Nella nostra vita abbiamo imparato che c'è sempre un noi e un loro, c’è un prima e un dopo, nell'approccio al lavoro c'è una vita professionale e una vita privata.

La nostra identità viene spezzettata e quella professionale rischia di assorbire tutto il resto.

Ma, scrive Riccarda Zezza, “una cornice più ampia fa spazio ad un mondo più complesso”.

Se provassimo ad allargare la nostra prospettiva potremmo espanderci e dare spazio a sfumature più complesse, allontanandoci da una dicotomia che porta solo a schierarsi invece che ad agire un cambiamento diffuso.


Sono tantissimi anni che seguo l’autrice di “Cuore Business. Per una nuova storia d’amore tra persone e lavoro”, Riccarda Zezza. Oltre ad imprenditrice rivoluzionaria, è autrice di numerosi articoli sul Sole24ore e di Maam, il suo primo libro scritto con Andrea Vitullo, e che resta ancora un testo unico nel suo genere, almeno in Italia. “Maam. La maternità è un master che rende più forti uomini e donne”, ha cambiato il mio sguardo sul lavoro e sull’esperienza di mamma: la trasferibilità delle competenze, la maternità come un’attività qualificante e non una “vacanza”, la genitorialità come luogo dove poter sperimentare se stessi e le capacità di leadership (da inserire, poi, nel proprio curriculum vitae).

Insomma sono una fan.


Non vedevo l’ora di leggere questo testo per dare uno sguardo al futuro.

Perché è questo che l’autrice propone: se cambiassimo prospettiva potremmo vedere un futuro in cui il mondo del lavoro è diverso, lontano dagli schemi con cui siamo cresciuti, in cui ruoli sociali e famigliari sono rigidi e danno poco, pochissimo spazio ad un’evoluzione personale.

Fino a poco tempo fa si parlava di conciliazione vita e lavoro dove ognuno cercava di incastrare la vita privata negli orari lavorativi. Ma non è possibile. E’ il mondo del lavoro che va ripensato attorno alla vita.


Una cosa che mi ha colpita, qui nei Paesi Bassi, è il numero di scuole: attorno ad ognuna di esse c’è il parco, il supermercato, il parcheggio. Le case da cui i bimbi vengono sono a poca distanza, se non dietro l’angolo. Nelle attività scolastiche tutti vengono coinvolti. Ogni ricorrenza viene trasformata in una festa del quartiere e della scuola, affinché i bimbi possano continuare a giocare anche insieme ai loro genitori.

La vita famigliare e lavorativa sono scandite dal calendario scolastico (le vacanze estive, ad esempio, durano 6 settimane, adeguate alla vita di tutti e, soprattutto, per evitare il fenomeno del summer learning loss*)


E’ un sistema che ha moltissime altre problematiche, soprattutto rispetto al lavoro femminile, ma il work - life balance è una priorità (quasi sempre) e un punto di orgoglio nazionale.


Come si rimodella il mondo del lavoro?

Le parole creano risonanza e, nel corso della lettura sono state moltissime quelle che ho sentito profondamente e che hanno risuonato in me. Ne ho scelte alcune che sollevano molte domande e stimolano la riflessione.


Alleanza

Per costruire un mondo del lavoro umano-centrico, è fondamentale l’alleanza. Non possiamo fare tutto da sol*.

Creare alleanza significa che gli individui e il sistema sono pronti al dialogo.

Durante la pandemia il lavoro da remoto è diventato una necessità. Abbiamo scoperto che moltissime professioni si possono svolgere a distanza senza che ne risenta la produttività. Alcune aziende hanno dato la possibilità di continuare a lavorare da casa, magari per metà settimana.

Ma cosa dicono i dati oggi? Alcune ricerche sostengono che lavorare da casa sia poco produttivo, altre il contrario. Se perfino Zoom, che grazie al lavoro da remoto ha costruito la sua fortuna, ha deciso che il proprio personale che vive nel raggio di 80 km dalla sede, doveva tornare in ufficio, come si muoveranno le altre aziende?


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Inclusione

Come expat, l'inclusione è un concetto che ho esplorato prima ancora di arrivare nei Paesi Bassi. Ho riflettuto molto su parole come "inclusione", "integrazione" e "senso di appartenenza", per me sinonimi di sentirsi parte di una comunità rispettando e abbracciando le diversità. Questa era la mia visione iniziale.

Il senso di appartenenza è una cosa strana. Pensavo che imparando la lingua, vivendo qui, facendo networking, potessi sentirmi inclusa e che mi sarei sentita a casa.

Non riesco più a sentire la città da cui vengo come casa, ma non mi sento completamente a casa nemmeno qui nei Paesi Bassi.

L'autrice, Riccarda Zezza, definisce così l'inclusione la "normalizzazione di qualcosa di esterno". Per me è stata come scossa. Mi ha risvegliata.

L'immagine è potentissima: l'inclusione sembra aprire uno spazio, ma rimane comunque racchiusa entro un confine. E suggerisce due aspetti fondamentali: il primo è che lo spazio è limitato, il secondo è che chi è già in quello spazio non sia sottoposto a tutti gli aggiustamenti di chi arriva dall’esterno.

L’inclusione dovrebbe permettere alle persone di portare con sé le proprie differenze e peculiarità in un ambiente con le sue regole e abitudini. Quando sento di essere in un ambiente che mi accoglie, inclusivo, la mia partecipazione è più attiva e sento che una parte di me fa parte del gruppo.


Coinvolgimento

Quanto è importante il coinvolgimento nel proprio lavoro?

“Il problema è che investiamo meno di noi in tutti i luoghi in cui non possiamo nominare l’amore: vediamo di meno e, forse soffriamo di meno, ma interveniamo meno e ci diamo meno e alla fine ci manca una fonte di energia naturale, che appaga il bisogno di nutrimento e sicurezza delle nostre menti e dei nostri cuori”.

In altro film, ormai datato (sì, sono una millennial e questi sono i miei riferimenti cinematografici!), “C’è posta per te”, il personaggio di Tom Hanks incoraggiava la sua amica dicendole “vai ai materassi! Combatti, dopo tutto è solo lavoro”.


Una ricerca condotta da Gallup analizza alcuni aspetti legati al coinvolgimento e ad un’altra parola che mi è piaciuta un sacco, la prosperità, cioè un senso di realizzazione o soddisfazione personale nel proprio lavoro.

Secondo i ricercatori un coinvolgimento attivo nel proprio ruolo lavorativo porta le persone ad avere più energia, ad essere più proattive e creative e a relazionarsi meglio sul luogo di lavoro. Lavorano meglio e producono di più.

L’Italia appare ultima in classifica, in Europa, con il 4% delle persone intervistate che si sente coinvolto. Nell’articolo del Sole24Ore, a firma proprio di Riccarda Zezza, l’autrice spiega questo scarso coinvolgimento come il risultato di un senso di rassegnazione: “Lo faccio perché devo farlo e devo pagare le bollette”. Un “quite quitting” di massa.


Se da una parte lasciare che il lavoro sia così pervasivo in tutti gli aspetti della nostra vita, sia poco auspicabile, dall’altra è uno dei nostri ruoli, è un pezzo di noi, in cui ci sono i nostri valori, ciò in cui crediamo, il nostro modo di relazionarci con gli altri, il nostro bisogno di essere visti.

E’ un altro modo per esprimerci.


Stereotipi

Gli stereotipi possono essere alimentati dai bias cognitivi, poiché i nostri pregiudizi spesso influenzano il modo in cui percepiamo e giudichiamo automaticamente le persone in base a categorie predefinite.

Ogni volta che mi chiedono quale sia il mio paese di origine, una curiosità normalissima e che ho anche io nei confronti degli altri, so che la persona di fronte a me penserà ad una serie di stereotipi: “Ah! Pizza, calcio, pasta, bruschetta, mafia, vino, maschio latino” e così via.

Ogni tanto escono fuori anche Battiato, cinema e poesia e mi sento salva.

Non che non mi piaccia la pizza, la facciamo ogni venerdì sera a casa. Ma abbiamo una cultura un po’ più vasta, ecco.

Il problema è che gli stereotipi portano ai bias. Cioè, in base ai miei pregiudizi (l’immagine che ho in testa di una cultura, di un genere, di una categoria) avrò delle aspettative su ciò che quella persona dirà e farà.

Lo vedo, il mio interlocutore, che appena muovo le mani e inizio a gesticolare mi guarda e pensa “ah vedi, è davvero italiana!”. Ma se l’aspettativa è legata al pregiudizio, ad esempio la pigrizia, la disorganizzazione o altro, verrò ancora invitata a fare parte del gruppo?

Gli stereotipi sono delle barriere. Il rischio di essere esclusi o di dover nascondere e minimizzare ciò che ci rende diversi per conformarci e fare parte, è altissimo. E, quando si vive all’estero, restare isolati ha un impatto enorme su tutta la nostra vita.


Responsabilità

La responsabilità va a braccetto con la consapevolezza.

In un passaggio del libro, per me illuminante, l'autrice sottolinea l'importanza di riconoscere le responsabilità del sistema quando esso mostra ingiustizia e discriminazione (ad esempio quando discrimina una persona che viene da una cultura diversa, o perché appartenente ad un genere storicamente escluso da certe posizioni lavorative).

Il “se vuoi, puoi” partendo da una situazione di svantaggio dove il sistema ti ha posto, non funziona e se non puoi non è colpa tua.

C ’è anche la responsabilità individuale e che può essere una grande libertà: la scelta.

Alla fine del film Il diavolo veste Prada l’odiosa capa si rivolge alla protagonista “non essere sciocca. Tutti vogliono essere come noi”, la ragazza ormai maturata, si è resa conto che non è disponibile a rinunciare ai suoi valori pur di vivere una vita tra lussi e tradimenti e lascia “il lavoro per cui 1 milione di ragazze ucciderebbe”.

Tu avresti rinunciato? Con le difficoltà che ci sono oggi nel trovare un lavoro che paga l’affitto e che offre altri vantaggi, avresti detto no?

Oppure c’è una terza via: fare un lavoro su di te per capire a che punto sei (valori, priorità, stile di vita) e costruire il tuo modo di lavorare e di vivere, l’autrice scrive “Non è necessario avere tutto ma si può scegliere di “essere” tutto”.

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Maam. La maternità è un master che rende più forti uomini e donne, Andrea Vitullo e Riccarda Zezza, Bur varia

Cuore business: Per una nuova storia d'amore tra persone e lavoro, Il sole24ore.


 
 
 

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